Lotta politica e strutture economiche nell'età liberale
Neppure la caduta della monarchia borbonica e l'annessione al regno d'Italia (1860) segnarono per Atripalda un grosso momento di scelta politica. L'adesione al nuovo ordine di cose fu abbastanza generalizzata, anche se non mancarono, specie tra il clero, i nostalgici del vecchio regime. Il brigantaggio filoborbonico ed antiunitario non interessò in effetti che assai marginalmente le campagne atripaldesi. Neppure a livello di personale amministrativo e di classe dirigente locale vi furono sostanziali mutamenti. Ad assumere la guida del comune fu Vincenzo Belli (1861-1865), mentre consigliere provinciale fu eletto il magistrato di Cesinali Salvatore Cocchia (1861-1867), a cui successero prima l'avvocato Vincenzo Ruggiero (1867-1869), dal '65 anche sindaco della città, e poi Pietrantonio Vegliante (1869-1878), medico di larghissima notorietà, tutti di parte moderata. Abbastanza diversa fu invece la situazione a livello di rappresentanza parlamentare. E' infatti da rilevare che Atripalda divenne con l'Unità capoluogo di collegio elettorale politico che comprendeva i mandamenti di Atripalda, Volturara, Serino, Chiusano e Montemiletto, ma che, sino al 1867, il collegio non espresse alcun deputato locale; gli eletti, inoltre, furono tutti di Sinistra, sia pure moderata. Le elezioni del 27 gennaio 1861, col seguente ballottaggio del 3 febbraio, videro infatti il successo dell'ex ministro borbonico ed ora consigliere della Luogotenenza Liborio Romano, schierato su posizioni di Sinistra, sul moderato locale Sabino Belli e sul radicale Domenico Giella di Aiello. Avendo optato il Romano per il collegio di Tricase, il 23 giugno di quell'anno fu eletto un altro pugliese di Sinistra, Francesco Paolo Catucci (1820-1880), nominato l'anno prima da Garibaldi giudice del circondario di Atripalda. Riconfermato nelle elezioni del '65, il Catucci optò però per il collegio della natia Bitonto. Il ritiro del Catucci dalla scena politica atripaldese apri un confuso periodo di lotte e di incertezze. Al mandato parlamentare aspirava infatti il giovane sindaco di Salza, Michele Capozzi (1836-1917), ma al futuro dominatore della vita pubblica irpina mancava un anno per raggiungere la prescritta età legale. Occorreva pertanto fare in modo che nessun pericoloso concorrente occupasse l'ambita carica. Le elezioni del 24 dicembre 1865 videro il successo di stretta misura del sindaco di Atripalda Vincenzo Belli sul conservatore avellinese avvocato Giovanni Trevisani, ma il Capozzi riuscì ad ottenere l'annullamento dell'elezione del Belli montando contro di questi delle assai gonfiate accuse di corruzione. Nuovamente indetti i comizi per il 17 giugno 1866, questa volta il Capozzi pose innanzi la candidatura dello zio Enrico Capozzi, che ebbe la meglio sul Trevisani e sul Belli, ma essendo egli ineleggibile per incompatibilità d'ufficio, nella sua qualità di conservatore delle ipoteche, l'elezione venne annullata; ora però il Capozzi, raggiunta l'età prescritta, poteva finalmente porre la sua candidatura. Il 10 marzo 1867, infatti, egli venne trionfalmente eletto deputato di Atripalda, collegio che avrebbe rappresentato per quasi quarant'anni e per undici legislature sino al 1904, coll'unico intervallo del 1876-1880. Cresceva intanto nell'ambito municipale l'influenza e l'autorità del giovane Luigi Belli, esponente della Sinistra nicoterina ed avversario principale del Capozzi. Nel 1876, caduta la Destra, a cui il Capozzi, appartenente inizialmente alla Sinistra moderata, si era avvicinato nel 1873, la posizione del deputato di Atripalda parve assai scossa, mentre sembrò giunto il momento del suo emulo Belli. Questi, infatti, con l'appoggio delle nuove autorità governative, scalzò in quello stesso anno l'egemonia dei moderati sul municipio di Atripalda, di cui sarebbe stato sindaco per ventisei anni, riuscendo pure, due anni più tardi, a conquistare il seggio al consiglio provinciale. A sua volta il Capozzi, fortemente combattuto, cadde nelle elezioni del 5 novembre 1876, venendo sostituito nella rappresentanza al Parlamento del Collegio di Atripalda da Giovanni Trevisani, passato inopinatamente alla Sinistra. Ma le doti di recupero del Capozzi, sconfitto ma non distrutto dall'insuccesso del 1876, erano veramente eccezionali, per cui egli riconquistò nel 1880 il mandato parlamentare. Da allora, fino ai primi anni del nuovo secolo, si determinò una vera e propria situazione di diarchia politica, col Capozzi deputato del collegio con alterni rapporti di colleganza e di conflittualità col Belli, che continuava a dominare la vita amministrativa atripaldese. Se i decenni successivi all'Unità furono fervidi di lotte politico-amministrative, di non meno rilevante interesse furono le vicende di Atripalda nel campo economico. Va infatti innanzitutto rilevato che ad Atripalda, al contrario che nel resto del Mezzogiorno, l'Unità non segnò la generale caduta delle vecchie attività manifatturiere, con la sola eccezione del settore molitorio, irreparabilmente travolto dalle deviazioni dei traffici commerciali lungo la strada delle Puglie ad opera della linea ferroviaria Napoli-Benevento-Foggia. Più lenta fu la decadenza del settore siderurgico, avviata con la fine del blocco continentale. Con la riapertura dei mercati internazionali dopo il 1815, infatti, le ferriere erano sopravvissute stentatamente solo grazie alla nuova tariffa protezionistica del 1826. Da una inchiesta del 1848 risulta che la ferriera di Pianodardine, di proprietà del principe Caracciolo e gestita da Antonio Salvi, era ancora la maggiore della provincia, coi suoi tre "fuochi", i 27 addetti e le 1200 "cantaia" annue di ferro raffinato prodotto. Quella posta nel centro cittadino, presso la chiesa dell'Annunziata, gestita da una società il cui principale esponente era Giuseppe Limongelli, era invece più modesta, con due "fuochi", 16 addetti e 800 "cantaia" di prodotto. In quel periodo erano pure ancora in attività, che è però da ritenersi estremamente ridotta, la cartiera, la ramiera e le due gualchiere che il principe possedeva. Nel 1889 troviamo invece in funzione una sola ferriera, con 10 addetti, che lavorava prodotti tecnologicamente assai modesti (cerchi per tini e botti, assi per carri e carrozze), e due ramiere con 21 addetti (utensili di cucina e caldaie), tutte di proprietà del marchese Imperiali, succeduto ai Caracciolo. La decadenza del settore siderurgico, meno radicale di quello molitorio, ma destinata sempre più ad accentuarsi negli anni successivi, è più che evidente. In netto sviluppo appaiono invece, negli anni '80, le attività legate all'edilizia. Il rinnovamento urbanistico di Napoli dopo il colera del 1882, la costruzione, in quegli stessi anni, dell'acquedotto del Sabato e della rete ferroviaria irpina avevano infatti stimolato l'utilizzazione per la fabbricazione di mattoni delle ottime cave d'argilla di Atripalda. La "Società costruttrice" di Napoli, ad esempio, aveva aperto uno stabilimento che impegnava 40 addetti e produceva 4 milioni di mattoni all'anno. Ancora più importante era poi l'analogo stabilimento della "Società per costruzioni", che sorgeva in territorio di Manocalzati ed occupava 305 operai, molti dei quali atripaldesi. Manifatture minori, ma che costituivano un fitto reticolo connettivo di attività paraindustriali, erano poi quelle della fabbricazione di fiammiferi, di paste alimentari, di cappelli, di mobili e di botti. Assai più rilevante era l'opificio dei fratelli Tedeschi per la filatura e la tessitura della lana, che utilizzava un motore a vapore di 15 cavalli, 240 fusi e 9 telai a mano, dando occupazione a 64 operai. Il ruolo leader tra le industrie atripaldesi era però detenuto da uno stabilimento di nuovo impianto, dovuto all'iniziativa del capitale straniero. L'opificio creato subito dopo l'Unità dall'inglese Giuseppe Turner per la filatura della canapa impiegava infatti 148 addetti (tra cui 98 donne e ragazze), ed era dotato di 1140 fusi animati da un motore a vapore della forza di 50 cavalli. Nel 1889 gli addetti al settore industriale, che risultavano raggiungere la cospicua cifra di 531, pari ad oltre P8% della popolazione atripaldese, erano così suddivisi:

attività N. addetti %
tessili 212 39,93
minerarie e meccaniche 178 33,52
diverse 130 24,48
alimentari 11 2,07
Totale 531 100

La concentrazione della massa operaia, caso pressoché unico per l'Irpinia del tempo, era quindi notevole. L'organizzazione politico-sindacale fu tuttavia quasi del tutto assente, nonostante un memorabile sciopero che già nel settembre 1872 impegnò le maestranze dell'opificio Turner. Carattere assistenziale ed elettoralistico ebbero del resto la "Società operaia di mutuo soccorso", fondata il 2 luglio 1877 con 200 soci, e la rivale "Società di mutuo soccorso ed assistenza", che le si affiancò l'anno successivo con 100 aderenti. Se, come si è visto, il settore manifatturiero "tirò" egregiamente sino alla fine del secolo, non bisogna dimenticare l'autentico boom economico costituito per Atripalda tra il 1870 ed il 1890 dalla produzione e dal commercio, anche all'estero, del pregiato vino locale. Dall'armonica integrazione delle sue varie ed articolate attività produttive - industriali, agricole e commerciali - derivò in quei decenni ad Atripalda un benessere senza precedenti. La circolazione del capitale liquido era notevole e fin troppo larga era la concessione del credito, erogato da ben due banche locali, la "Banca popolare di Atripalda" e quella del "Credito agricolo", quest'ultima diretta dallo stesso Belli. L'ultraventennale amministrazione del municipio di Atripalda da parte del sindaco Belli fu contrassegnata da un eccezionale fervore di opere pubbliche. L'edificio della nuova Dogana, la lastricatura del mercato, la rete idrica e fognaria, la luce elettrica, il risanamento di parte del centro antico, il rinnovamento edilizio e l'espansione urbanistica resero infatti in quegli anni Atripalda il centro cittadino più attivo ed evoluto della provincia. Ma già con regio decreto del 18 luglio 1867 Atripalda aveva ottenuto il riconoscimento ufficiale del titolo di "città". Di grande importanza si rivelò pure, per lo sviluppo economico di Atripalda, la localizzazione ai margini del suo territorio comunale, per volontà precipua del Capozzi, della stazione ferroviaria di Avellino, che venne in effetti a servire più Atripalda che il capoluogo della provincia. La stazione fu inaugurata il 1" aprile 1879 con l'apertura al traffico del tronco Avellino-Solofra della linea di San Severino. Negli anni successivi si ebbe l'apertura della linea per Benevento ed infine, nel 1896, di quella per Rocchetta Sant'Antonio. Le starde ferrate ebbero in effetti un grande ruolo nel favorire la commercializzazione del vino atripaldese e della valle del Sabato che in quegli anni ebbe appunto uno smercio anche internazionale. La fioritura economica degli anni '70 ed '80 doveva però rivelarsi per Atripalda soltanto una splendida ma breve "estate di San Martino". La grande crisi agraria susseguentemente al 1885 e la rottura commerciale con la Francia - che distrusse l'esportazione del vino - inaridirono infatti ben presto le basi della prosperità atripaldese. Le conseguenze non tardarono a ripercuotersi anche sulle manifatture, che, non sorrette da adeguati afflussi di capitali, finirono col cedere di fronte alla sempre più agguerrita concorrenza delle industrie settentrionali. Negli anni del boom economico, infatti, le ingenti risorse liberate dall'agricoltura, dal commercio e dall'industria, invece che applicarsi ad investimenti produttivi, erano state impegnate, e spesso dissipate, in imprese speculative, per lo più legate al fittizio sviluppo edilizio. Vi è inoltre da aggiungere che il progresso tecnologico, col sempre più generalizzato impiego del vapore, rendeva ormai superata l'energia idraulica del Sabato, e quindi la sino ad allora obbligata localizzazione ad Atripalda delle varie attività industriali. Per tutto questo, ai principi del nuovo secolo ben poco avanzava di quel vasto complesso di manifatture e di opifici che avevano così fortemente caratterizzato Atripalda nei decenni precedenti. La tradizione e la vocazione industriali dell'operosa città se non scomparvero del tutto, certo si illanguidirono fortemente, per conoscere una decisa ripresa soltanto in tempi recenti. La crisi economica di fine secolo si ripercosse anche a livello politico-amministrativo, scuotendo il predominio esercitato dal Capozzi e dai Belli. Nel 1901, infatti, il giolittiano prefetto Chiaro sciolse il consiglio comunale e nel dicembre 1903 le elezioni portarono al potere una eterogenea lista "popolare", capeggiata dal clerico-moderato barone Francesco Di Donato. Anche il Capozzi, dopo memorabili battaglie elettorali col suo giovane emulo Carlo Vittorio Cicarelli (1865-1929), alternativamente sostenuto ed avversato dal Belli, fu infine costretto, dall'irriducibile ostilità di Giolitti, a cedere al Cicarelli il mandato parlamentare (1904). Tramontarono così, definitivamente e contemporaneamente, le due antagonistiche personalità che avevano tanto nettamente dominato la vita politico-amministrativa della città e del collegio di Atripalda per quasi un quarantennio. Dopo il pesante contributo di sangue dato nella prima guerra mondiale con ben 94 caduti, l'epoca fascista iniziò per Atripalda la sera del 30 ottobre 1922, quando un gruppo di squadristi fascisti di Mola di Bari, non andati al di là della stazione di Avellino nella loro "Marcia su Roma", aizzati da elementi locali occuparono con la forza il municipio di Atripalda, esautorando l'amministrazione democratica. L'opposizione antifascista - rappresentata dai giolittiani di Rubilli ed Amatucci, da un cospicuo nucleo socialista e da un piccolo gruppo di popolari sturziani - si mantenne però viva ed attiva, come dimostrarono le elezioni politiche del 6 aprile 1924. In quell'occasione, nonostante le violenze fasciste (sequestro del cav. Teodoro de Caprariis ed arresto dei rappresentanti della lista rubilliana), la "Lista nazionale" ottenne soltanto uno stentato successo con 515 voti (52,17%), mentre la lista di Rubilli ed Amatucci consegui un'autentica affermazione politica con 371 suffragi (37,58%). La perdurante vitalità dei fermenti politici e culturali di tradizione liberaldemocratica si sarebbe poi espressa in due giovani intellettuali atripaldesi formatisi in pieno regime fascista, Vittorio de Caprariis (1924-1964) e Leopoldo Cassese (1901-1960). Seguirono i giorni bui del settembre 1943, contrassegnato anche ad Atripalda dallo sbandamento delle forze armate, dalla dissoluzione dell'autorità dello Stato, dagli atti vandalici dei tedeschi in ritirata e dalle imprese dei saccheggiatori, mentre alle Fosse Ardeatine si consumava il sacrificio dell'atripaldese Raffaele Aversa (1906-1944), eroico capitano dei carabinieri. Nell'immediato dopoguerra iniziò la fase della rinascita democratica e della ripresa produttiva. Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 vide lo schiacciante successo della monarchia sulla repubblica, con 3672 voti (80,52%) contro 888 (19,47%). Che si trattasse però sostanzialmente di un risultato frutto di una lunga tradizione monarchica, assai radicata a livello di mentalità collettiva, più che di una scelta con una precisa valenza poltica, fu dimostrato dai contemporanei risultati per la Costituente, che videro una equilibrata affermazione di tutte le forze politiche democratiche.
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